Chiacchieriamo di identità e titoli professionali
...oltre a idee, strategie e appuntamenti!
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"Che lavoro fai?"
Cosa provi nel leggere questa domanda?
Mi ci ha fatto riflettere Elena Verna in uno dei suoi ultimi contenuti.
Quando ti senti chiedere “Che lavoro fai?” che emozioni provi?
Un po’ di frustrazione? Sai già che non capiranno davvero di cosa ti occupi? Rispondi con il pilota automatico?
Se sei tra quelli che tendono a rispondere con superficialità fai attenzione, questa domanda, apparentemente semplice, ha lo stesso effetto della prima impressione: la persona che hai di fronte userà la tua risposta per inserirti immediatamente all'interno della classifica della gerarchia sociale, la userà per decidere se sei degno del suo tempo e del suo rispetto.
Nessuno lo dice ma tutti lo sonno: il rispetto e l'attenzione che riceviamo dipendono spesso da quanto ciò che facciamo può essere utile alla persona con cui stiamo parlando.
Ma quanto è pericolosa la trappola del titolo?
Premesso che essendo esseri sociale è nella nostra natura voler essere accolti e accettati dalle persone intorno a noi, è inevitabile, nel mondo del lavoro, entrare in contatto con qualcuno presentandoci con nome, cognome e… il nostro titolo, cosa facciamo e per chi.
Comprensibilmente, quindi, iniziamo a passare ore nel cercare di rendere quell'insieme di parole che troviamo nella nostra bio di LinkedIn/Instagram, sito, etc… il più interessanti e accattivanti possibile, per gli altri, ma soprattutto per noi.
Leghiamo la nostra identità al ruolo di [X] presso l'azienda [Y].
Da un lato capiscono la necessità di identificarci con il nostro ruolo e i risultati ottenuti, dall’altro mi rende un po’ triste vedere ancora molte persone legare la propria autostima alla propria attività, equiparando il proprio valore professionale ai lavori che hanno svolto, indipendentemente dall’effettiva soddisfazione o dall’impatto derivante da quei ruoli.
Questa ricerca del riconoscimento può portarci, senza nemmeno rendercene conto, in quella che è chiamata “trappola del titolo”, rischiando di:
1. Preferire un risultato veloce invece che l’apprendimento reale, ad esempio salire in organigramma cambiando azienda o scegliere un corso di poco valore che in un weekend rilascia “il titolo di…” da mettere sui bigliettini da visita, ma che non rende davvero di valore la professione - fate ciao all’Effetto Dunning-Kruger!
2. C’è poi l’Effetto opposto, ciao Impostore, bentrovato!
Avere il timore che solo il ruolo che si ricopre al momento dia l’esatta percezione del nostro valore agli altri, rinunciando così a fare dei passi laterali verso altre attività o modalità di lavoro che rispetterebbero maggiormente chi si è, magari per paura di perdere rilevanza all’interno della propria cerchia di riferimento.
3. Rimanere incastrati nelle aspettative altrui.
La situazione forse meno desiderabile è fare scelte professionali guidati più dalle aspettative altrui percepite che non dalla reale ricerca della propria soddisfazione. Questo approccio ci costringe a prendere decisioni mossi dalla volontà di piacere e di essere adeguati agli standard di successo imposti dalla società anziché inseguire il proprio autentico appagamento.
Ok Elisa, tutto chiaro, ma quindi come ne usciamo?
Elena Verna propone una soluzione semplice, ma non facile: dobbiamo prendere le distanze dall’idea che il nostro valore sia intrinsecamente legato ai nostri titoli professionali. Un simile cambiamento di prospettiva incoraggia una visione più olistica di successo, che valorizza la crescita personale, la nostra soddisfazione e il perseguimento di ruoli che siano veramente in sintonia con i nostri talenti individuali.
Personalmente, questa consapevolezza mi ha portato, anni fa, a lasciare Milano per i più tranquilli inverni romagnoli ed estati piemontesi (poi ho iniziato a “nomadare”, ma questa è un’altra storia) prendendo così le distanze da un ambiente in cui la mia autostima era sempre più definita dalla percezione delle altre persone.
Per me non è stato un cambiamento immediato, ha richiesto cambiamenti mentali, emotivi e sociali e capisco che un trasloco possa non essere nel prossimo futuro di chiunque, ma anche solo una prima riflessione che ci faccia vedere quanta importanza diamo al nostro titolo professionale e quanto la nostra identità come persone sia definita da questo è un primo passo importante...
Inoltre, dopo esserti guardato allo specchio e aver riconosciuto che non sei il tuo titolo professionale, puoi provare a parlare diversamente di quello che fai?
Racconta:
quali sono i tuoi interessi che ti hanno portato a svolgere il tuo lavoro,
cosa ti entusiasma di più di quello che fai,
cosa rende unico il tuo modo di lavorare.
L’entusiasmo è difficile da fingere e le persone tendono a ricordarsi di chi parla del proprio lavoro con gli occhi che brillano …e se nonostante il tuo trasporto nel raccontare quello che fai, la persona che hai di fronte non è interessata a te allora saprai che quella conversazione non vale il tuo tempo!
Ciao, sono Elisa! Volevo salutarti e dare il benvenuto ai nuovi iscritti a questa newsletter.
Oggi ti parlo di come percepiamo e viene percepito il nostro ruolo professionale, ma questa pubblicazione è molto versatile e non riesce a stare nei paletti di una sola area di interesse, quindi aspettati di tutto.
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Da Guardare
Sto guardando “Morte e altri dettagli” su Disney+, una sorta di Agatha Christie Wannabe. L’ho iniziata per la presenza di Mandy Patinkin, che ho adorato in "Homeland", e se cercate un giallo carino, un po’ intricato ma non estremamente impegnativo a livello di tempo - ho appena finito Scandal e sto accusando la durata - allora ve lo consiglio. La trama si snoda attorno a un misterioso omicidio avvenuto durante una crociera dove ogni passeggero diventa un sospettato e tra i viaggiatori figura un astuto detective incaricato di svelare l'identità dell'assassino; esatto, manca solo il Nilo!
Da leggere
Ho appena finito un capolavoro: “Patria” di Fernando Aramburu; è un romanzo potente e commovente che esplora il conflitto basco in Spagna attraverso le vite di due famiglie divise dall'ETA, l'organizzazione separatista basca.
Patria non si limita a raccontare la violenza politica, ma esplora anche i temi universali della famiglia, del perdono e della ricerca della verità. L'autore non offre giudizi semplicistici, ma presenta invece un quadro complesso di colpa, dolore e, infine, di speranza per la riconciliazione. Il romanzo è un appello alla comprensione e al dialogo, mettendo in luce la capacità umana di superare divisioni profonde attraverso l'empatia e l'amore.
Da Wave alla Community
Tra 5 giorni riaprono le porte di Wave, ecco cosa abbiamo in programma per il mese di aprile!
Sia l’iscrizione mensile (40€) che quella annuale (388€) comprendono:
La Masterclass su come sbloccare e allenare la tua creatività
4 Sessioni di Gruppo - registrate se non riesci a esserci
Il mio Supporto Diretto per tutto il mese all’interno del Canale Telegram dedicato
Tutti i percorsi e le masterclass disponibili in Wave tra cui:
– Pensare come Leonardo
– Design Thinking
– Lo Storytelling e il Viaggio dell’Eroe
Ti ricordo che Wave è il programma di mentoring in cui ti dico esattamente cosa devi fare - e quando! - per raggiungere i tuoi obiettivi senza fatica e frustrazione nel pieno rispetto del tuo ciclo ormonale e dei tuoi ritmi infradiani e cirdadiani.
Le iscritte a Wave hanno imparato a sincronizzare il proprio ciclo ormonale con il loro programma di vita e di lavoro, un super potere che le aiuta a sfruttare al meglio le loro energie ed essere più produttiva nel pieno rispetto dei propri corpi.
Ogni mese ti accompagno in modo molto pratico nello sviluppo delle competenze e conoscenze necessarie per gestire al meglio la tua attività, aprile lo dedichiamo a esplorare e ampliare le proprie capacità creative
From web with curiosity
Le cose importanti della vita: 50 posti in cui mangiare e bere prima di morire!
Una descrizione di chi sei a seconda dell’ora in cui ti svegli.
Questa la mia (più o meno visto che non uso sveglie!):
You’re a man who likes his pleasure, but you know when to buckle down and begin the work in earnest. You have one simple deep green robe, bordered with white fur, which hangs so loosely on your figure that the capacious breast is bared, as if disdaining artifice; your head wears no other covering than a holly wreath; your face is genial, your eye sparkling, your hand open, your voice cheery, your demeanor unconstrained — I have never seen the like of you before! I would like to shake your hand and fry you an egg!
Se devi vedere una cosa oggi, fa che sia questa! Io sconvolta!
Let's talk about identity and professional titles.
"What do you do for work?”
How do you feel when you read this question? It made me reflect, a point brought up by Elena Verna in one of her recent pieces.
What emotions do you experience when asked, “What do you do for work?” A bit of frustration? Do you already know they won’t truly understand what you do? Do you respond on autopilot?
If you're someone who tends to answer superficially, beware, this seemingly simple question has the same effect as a first impression: the person you're talking to will use your answer to immediately categorize you within the social hierarchy, using it to decide if you're worthy of their time and respect. It's unspoken, but universally known: the respect and attention we receive often depend on how useful what we do can be to the person we're speaking with.
But how dangerous is the title trap?
Given that we are social beings, it’s in our nature to want to be welcomed and accepted by those around us, it’s inevitable, in the world of work, to come into contact with someone introducing ourselves with our name, surname, and... our title, what we do and for whom. Understandably, we then spend hours trying to make that collection of words we find in our LinkedIn/Instagram bio, website, etc., as interesting and appealing as possible, for others, but especially for ourselves.
We tie our identity to the role of [X] at company [Y].
On one hand, I understand the need to identify with our role and achievements; on the other, it saddens me to still see many people tying their self-worth to their job, equating their professional value to the jobs they’ve done, regardless of actual satisfaction or the impact of those roles.
This quest for recognition can lead us, without even realizing it, into what is called the “title trap,” risking:
Preferring a quick outcome over real learning
For example climbing the corporate ladder by switching companies or choosing a low-value course that over a weekend awards “the title of...” to put on business cards, but that doesn’t truly add value to the profession - say hello to the Dunning-Kruger Effect!Then there’s the opposite effect, hello Impostor Syndrome, welcome back!
Fearing that only the role one currently holds can give others the correct perception of our value, thus avoiding lateral moves to other activities or work modes that would better respect who we are, perhaps for fear of losing relevance within our own circle of reference.Getting stuck in others' expectations
Perhaps the least desirable situation is making professional choices more guided by perceived expectations of others than by the real pursuit of one's own satisfaction. This approach forces us to make decisions driven by the desire to please and be adequate to society's imposed standards of success rather than chasing our own genuine fulfillment.
Okay, Elisa, all clear, but how do we get out of it?
Elena Verna suggests a simple, yet not easy solution: we must distance ourselves from the idea that our value is intrinsically linked to our professional titles. Such a change in perspective encourages a more holistic view of success, which values personal growth, our satisfaction, and the pursuit of roles that truly resonate with our individual talents.
Personally, this realization led me, years ago, to leave Milan for the quieter winters of Romagna and summers of Piedmont (then I started to "nomad", but that's another story) thus distancing myself from an environment where my self-esteem was increasingly defined by others' perceptions. For me, it wasn’t an immediate change; it required mental, emotional, and social shifts, and I understand that moving might not be in the immediate future for everyone, but even just a first reflection that makes us see how much importance we give to our professional title and how much our identity as people is defined by this is an important first step...
Moreover, after looking in the mirror and recognizing that you are not your professional title, can you try talking differently about what you do?
Share:
what interests led you to do your job,
what excites you the most about what you do,
what makes your way of working unique.
Enthusiasm is hard to fake, and people tend to remember those who talk about their work with shining eyes… and if despite your passion in sharing what you do, the person you’re speaking with isn’t interested in you, then you’ll know that conversation isn’t worth your time! week, I was in Turin for the exhibition dedicated to Tim Burton and his incredible creativity, so today's newsletter is dedicated to the things we can "learn" from his art and choices!
Purtroppo è tristemente vero ... molte persone ti considerano / non ti considerano in base al lavoro che fai, e anche all'interno dell'azienda stessa sei invisibile se il tuo ruolo non è di rilievo.
Però, ribaltando la considerazione, tutto questo costituisce anche un veloce rivelatore delle persone che è meglio evitare ...